Per incrinare il delicato rapporto che sussiste tra datore e dipendente può bastare una frase fuori luogo. Il caso è anche finito in tribunale, che ha stabilito quali sono i limiti da non sorpassare.
Come è facile immaginare, la relazione datore-dipendente è molto delicata. I più fortunati hanno dei datori – o anche dei superiori – con cui riescono ad avere rapporti amichevoli e a relazionarsi in modo tranquillo e sereno. Purtroppo, non tutti i luoghi di lavoro sono così. Il rapporto lavorativo può anche essere conflittuale e, nei casi più gravi, sfociare nella diretta ostilità.
Non è mai facile gestire situazioni del genere, soprattutto considerando che il rapporto di potere, in queste situazioni, non è mai equilibrato, ma sbilanciato a favore di una delle due parti.
Tuttavia, anche se il datore di lavoro ha il coltello dalla parte del manico, anche lui non si può permettere di passare determinati limiti.
Non bisogna andare ad immaginare situazioni particolarmente vessatorie, per trovare il punto di non ritorno. Basta, infatti, una parola fuori posto per mettere il datore sotto accusa, nel senso letterale del termine: lo stabilisce una sentenza del 2017.
Le critiche sul lavoro sono permesse, e possono pure avere toni aspri. Ma devono i commenti negativi devono sempre limitarsi alla sfera lavorativa, e mai vertere su altri ambiti. La dignità del lavoratore deve essere preservata.
Cosa stabilisce la sentenza del 2017
Nel 2017, la Corte di Cassazione ha dato chiare disposizioni a riguardo. Tutto è iniziato con un dipendente che ha fatto causa al suo dirigente, “colpevole” a suo dire di averlo diffamato in una missiva inviata al Ministero dei Beni Culturali e alla Biblioteca Nazionale di Bari – enti di riferimento dei due antagonisti della questione – in cui lamentava un comportamento non solo poco collaborativo, ma addirittura ostile nelle iniziative prese dalla dirigente per rilanciare l’istituto affidatole. Nella lettera la donna ha denunciato un comportamento che aveva danneggiato la sua dignità, il benessere degli altri lavoratori e l’immagine dell’intero istituto. Il dipendete in questione ha fatto causa alla sua superiore per diffamazione, sostenendo che questa descrizione ledeva la sua immagine.
Tuttavia, la Corte di Cassazione ha dato ragione alla dirigente, poiché quest’ultima, nelle sue critiche, non è mai uscita dalla sfera lavorativa. Inoltre, non ci sono nemmeno giudizi gratuiti sulla persona, ma commenti riguardanti precisi comportamenti.
Nella sentenza la Corte ha ribadito quindi quali fossero i limiti da non superare e ha stabilito, che in questo particolare caso, questo non sia stato superato.